Gli Orfani del Pci articolo su L’Ortobene

È passato un secolo da quel 21 gennaio del 1921, quando, al teatro San Marco di Livorno, venne fondato il Pci. E non sono mancate, in queste settimane, le commemorazioni del più grande partito comunista dell’Europa occidentale. Molti anche gli elogi agli storici esponenti del Pci; in particolare a Gramsci, Togliatti ed Enrico Berlinguer. È mancata invece una riflessione su cos’è il Pci oggi. Non tanto per immaginare un’offerta politica che non esiste più. Quanto per capire se esista ancora una domanda di politiche di quel Partito e se essa resti o meno disattesa. Proviamo allora a guardare ad alcuni fenomeni di oggi con le lenti del Pci di ieri.

Diseguaglianze ed equità sociale.
Il Pci è sempre stato attento ai deboli, agli ultimi, ai diseredati. E ha messo in campo politiche di perequazione e di mobilità sociale. Oggi, ad esse è subentrato l’assistenzialismo del reddito di cittadinanza. Risultato: la mobilità sociale è svanita mentre sudditanza e dipendenza crescono a dismisura. Al lavoro si è sostituita la rendita: ciò che il PCI combatteva. Perfino i più nostalgici ricordano infatti che la prima Costituzione sovietica del 1918, all’articolo 3, lettera f), prevedeva che: «Al fine di distruggere gli elementi parassitari della società e di organizzare l’economia nazionale, viene istituito per tutti il servizio obbligatorio del lavoro». Si badi bene, non il diritto al lavoro, ma il lavoro obbligatorio, per sradicare la rendita e dare a tutti un’occupazione.

Pari opportunità.
Oggi più di ieri questo concetto fa il paio con la meritocrazia, che non significa nobilitazione delle disuguaglianze, come sostengono gli statalisti delle nazionalizzazioni, dei sussidi, dei pensionamenti facili. Ma motore di mobilità sociale e moltiplicatore di opportunità. Chi non ce la fa viene comunque aiutato e sostenuto. Ma attenzione: l’aiuto mira all’emancipazione, al reinserimento, non all’abbandono o alla dipendenza.

Istruzione e formazione.
Il Pci era un luogo di cultura e formazione. Non c’erano solo le Frattocchie, la scuola di Partito. Era un comune sentire. I militanti svolgevano spesso analisi e approfondimenti. Infatti il Pci, meglio di ogni altro, sapeva tenere assieme intellettuali e lavoratori. Oggi la formazione di partito è svanita e non è stata sostituito neppure dalla scolarizzazione istituzionale. Infatti negli anni cinquanta il 90% dei parlamentari era laureato, oggi solo il 60%. Chi ha nostalgia del Pci si chiede dunque: quale forza politica ritiene prioritaria la scolarizzazione delle classi dirigenti, iniziando dalla propria?

Stato e mercato.
Buona parte della classe politica ha teorizzato, per anni, un forte intervento dello Stato e attuato al contempo la sua lenta dissoluzione. Si è infatti preferito usare la politica per raggiungere posizioni di potere e procrastinarle nel tempo. L’esito è che per cinquant’anni lo Stato è stato utilizzato come occupatore seriale di aspiranti al posto fisso, ammortizzatore sociale, corrispettivo per politiche clientelari ed oggi palesa tutta la sua inefficienza. A questo punto il socialismo chi lo fa? Il mercato?

Ordine pubblico.

Ricordo ancora una battuta di Enrico Berlinguer: «il governo ideale sarebbe tutto di sinistra col solo ministro dell’interno di destra. Lì non siamo attrezzati». Purtroppo, su questo versante, il Pci italiano era carente. Ma possibile che nessun avanzamento culturale si sia avuto da allora? Eppure nei sistemi socialisti ordine e sicurezza erano (fin troppo) garantiti. E i confini erano presidiati. Ricordate Berlino est?

Globalizzazione.
Se i benpensanti, i girotondi, i solidaristi romantici predicano l’abbattimento delle frontiere e la globalizzazione economica, a chi tocca difendere lo Stato? Alla destra? La globalizzazione offre infatti molte opportunità ma mette a rischio i diritti sociali conquistati in tanti anni. Occorrerebbe dunque recuperare la forte attenzione che il Pci dedicava alla politica estera e ai temi planetari molto prima della globalizzazione odierna. Ma chi siede oggi alla Farnesina? Col beneplacito di chi?

Ambiente.
Anche su questo tema il Pci è stato sempre carente. E la coscienza ecologista è maturata con ritardo. Ma è maturata. D’altronde il mito sovietico predicava la fabbrica fumante come simbolo dell’operaismo. Oggi il quadro è cambiato e il pianeta è in pericolo. La sinistra deve dunque scegliere: sviluppo sostenibile o integralismo ambientale? Il Pci non avrebbe dubbi. Le alleanze populiste ne hanno invece molti e portano sulla via sbagliata.

Autonomia.
È vero, il Pci, nel professare l’unità delle masse salariate, ha investito molto poco sull’autonomia. Ed anzi, ha finito col combattere quei movimenti comunisti che la invocavano, come nel caso del Pcs di Antioco Mura e Antonio Cassitta, la cui sede sassarese venne pure occupata. Ma i più autorevoli comunisti sardi un’idea autonomistica intimamente la coltivavano. Antonio Gramsci, ad esempio, si dispiaceva dell’inerzia isolana. Il sardo, scrisse infatti: «…per sua natura apatico e diffidente, rifugge da idee di carattere nettamente rivoluzionario e preferisce cullarsi nell’attesa messianica che qualche Governo italiano, commosso da tanta rassegnazione, regali alla Sardegna, magari come strenna natalizia, un governo regionale bello e confezionato, tale da soddisfare il gusto di tutti senza disturbare il chilo a nessuno». Torniamo quindi a chiederci: esiste ancora un Pci oggi? La domanda senz’altro c’è. Manca l’offerta. Sono dunque molti gli orfani del Pci. D’altronde l’orfanotrofio, nel pensiero sovietico, era luogo ideale di socializzazione. La storia, a volte, fa di questi scherzi.

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