Il paradosso petrolifero in Basilicata

Basilicata, estrazione del petrolio e costo carburante

Una serie di paradossi caratterizzano la “questione petrolio” in Basilicata.

Il primo e più evidente è questo: la Basilicata ha, nel proprio sottosuolo, il più ampio giacimento petrolifero d’Europa in terraferma ed i suoi abitanti pagano gli idrocarburi mediamente più degli altri italiani. Da anni la Basilicata copre oltre l’80% della produzione nazionale di petrolio (84.000 barili al giorno cui si aggiungeranno presto i 50.000 di Tempa Rossa) ma il prezzo del carburante alla pompa è sempre superiore alla media nazionale.

La Comunità lucana viene infatti “compensata”, per l’ingombrante consumo del territorio, con apposite royalties, dovute dalle società petrolifere al sistema pubblico in misura percentuale ai ricavi. Dette somme, nello specifico caso lucano, sono destinate a Regione e Comuni. Ma sul come vengono spese, basti un dato: nel quindicennio 2001-2015 gli enti locali lucani hanno ricevuto la significativa somma di euro 1.512.878.303. La legge impone che le royalties siano devolute “allo sviluppo delle attività economiche ed all’incremento industriale (del territorio)”; le indagini svolte dalla Corte dei conti hanno denunciato un uso non propriamente rivolto ai predetti obiettivi e troppo spesso orientato a far fronte alla spesa corrente.

La Commissione di inchiesta sugli illeciti ambientali ha anch’essa riscontrato simili discrasie, giungendo alla seguente conclusione: “In sostanza, nel periodo 2010-2015, la regione Basilicata ha impiegato le risorse provenienti dalle royalties in maniera quasi paritetica tra le due tipologie di spesa: il 49 per cento per quelle in “conto capitale” ed il 51 per cento per quelle “correnti”.

Sono quindi giunti alle stesse conclusioni la Magistratura contabile lucana e la Commissione parlamentare di inchiesta. La prima rileva che: “… se è indice di virtuosità la realizzazione di un avanzo della gestione corrente, anche grazie all’apporto delle risorse petrolifere, da destinare a spese di parte capitale, è anche vero che la possibilità di realizzare in concreto spese per investimenti presuppone capacità progettuale, amministrativa e tecnica che, spesso, non è alla portata degli enti di più piccole dimensioni che, pure, ricevono proventi superiori ai bisogni della sola parte corrente”. La seconda aggiunge: “è proprio la mancanza di capacità o possibilità concreta di investire queste somme – per vincoli obiettivi, per mancanza di risorse umane adeguate – che qualifica in senso negativo la vicenda complessiva”.

A tutto questo si aggiunga che alcuni Comuni, per il solo fatto di non essere propriamente “estrattivi” ma di occuparsi della filiera produttiva più a valle (come il Comune di Pisticci con lo smaltimento dei reflui petroliferi) non beneficiano delle royalties, pur ospitando attività con sensibile ricaduta ambientale. Il che evidenzia come il paradigma vada capovolto ed adeguato alle esigenze del territorio. Per lo sfruttamento del sottosuolo non basta infatti immettere risorse nella finanza pubblica, specie quando queste sono usate non per realizzare investimenti ma per spesa corrente, spesso a tampone di pessime abitudini amministrative. Buona parte di quelle risorse deve arrivare direttamente al cittadino attraverso politiche che consentano di abbattere la pressione fiscale sui consumi, la quale, al contempo, è elevatissima e ingiusta.

Le accise sono infatti imposte odiose ed inique per varie ragioni, tutte arcinote, non a caso i gillet gialli, in Francia, le hanno fortemente combattute. Esse: 1) contano quasi due terzi del costo dei carburanti: ad oggi, su un litro di benzina, quasi 90 centesimi sono accise ed Iva. Tradotto: su 50 euro di rifornimento, solo 19sono per il carburante, 31 vanno al fisco; 2)moltiplicano a dismisura altre imposte; infatti l’IVA si calcola anche sulle accise: quindi imposte su imposte; 3)gravano su un costo, non su un ricavo. Lo Stato non tassa i guadagni ma i costi, angariando ulteriormente i cittadini; 4) colpiscono a prescindere dal reddito. Non chi più ha, più paga; l`opposto: ne soffrono di più i deboli;5)vessano chi vive in territori periferici. Lo Stato danneggia quindi quei cittadini più volte: non offre infrastrutture adeguate e tassa chi usa la sua auto, magari da solo, senza neanche le economie di scala dei trasporti collettivi; 6) non colpiscono i petrolieri poiché essi le scaricano sul consumatore finale. Inoltre, le portano in deduzione, per di più per competenza (non per cassa), grazie ad una risoluzione favorevole dell`Agenzia delle entrate.

Si tenga anche conto che nel 2015, la Corte costituzionale ha soppresso la Robin Tax, con un loro ulteriore “risparmio” fiscale del 10,5%. Si, abbiamo capito bene: lo Stato ha rinunciato a tassare i profitti dei petrolieri per gravare sui consumi de meno abbienti!

Dunque tanto petrolio, tante estrazioni petrolifere, poche strade e inadeguate per collegare centri abitati dislocati per lo più su rilievi, in un territorio vasto e sempre più spopolato, una rete ferroviaria obsoleta (quando c’è), nessun aeroporto (anche la pista Mattei giace in stato di abbandono), nessun porto. Questi i risultati della politica petrolifera in tanti anni. Eppure i lucani le accise le pagano come in Lombardia. Il che si traduce in una vera e propria penalizzazione per chi vive e lavora in Basilicata e una delle ragioni per le quali si abbandona il territorio e non si riescono ad attrarre investitori.

Ma questa storia non sembra essere stata vissuta e la lezione non viene mai appresa. Il modello assistenziale concepito per la concessione Val D’Agri viene sostanzialmente replicato per Tempa Rossa (salvo forse per il metano), con sensibili largizioni delle società petrolifere agli Enti locali. Non si è ancora capito che l’unica efficace leva per generare sviluppo economico e per uscire dalla monocultura petrolifera è ridurre drasticamente la pressione fiscale sugli investimenti produttivi diversi dal petrolio. Ciò che si può fare abbattendo le imposte, specie indirette, sulle attività produttive ecosostenibili che si insediano nel territorio. Si continua invece ad alimentare la filiera pubblica e quindi la politica clientelare, che tutto genera meno che meritocrazia, emancipazione, sviluppo economico e sociale.

Un secondo paradosso è questo: in Basilicata troppe poche persone conoscono il tema petrolio. Vi è un deficit formativo su più fronti: da quello strettamente tecnico-scientifico a quello ambientale ed economico. Manca la formazione di chimici, geologi ma anche di ingegneri ambientali e gestionali, giuristi ed economisti esperti in materia petrolifera. L’Università, cui sono state destinate circa 10 milioni di euro l’anno rivenienti dalle royalties delle estrazioni petrolifere, non ha tuttavia un’offerta scientifica e didattica adeguate alla sfida petrolifera.

È evidente che ciò pone l’intera realtà regionale in una condizione di subalternità cognitiva rispetto alle ampie conoscenze dell’interlocutore: le società petrolifere. Neppure il master universitario in materia, avviato solo pochi anni fa, è riuscito a colmare la lacuna, essendo sempre incerta la sua riedizione e non avendo sufficientemente incontrato la domanda occupazionale dei discenti. Anche perché pure gli enti regionali che dovrebbero acquisire competenze in materia non sembrano farlo, come nel caso della locale ARPAB. C’è, dunque, un deficit di conoscenza e occorrerebbe investire sulla capacity building anche perché è noto che le estrazioni non fanno occupazione (diverso il caso della raffinazione). Se quindi non c’è personale qualificato che conosce la geologia, la meccanica, la chimica, l’ingegneria, l’economia delle estrazioni, non si genera sufficiente ricaduta occupazionale e gli operatori economici continueranno ad assumere solo personale di basso profilo per lavori edili, movimento terra, ecc.

In ultimo, ma certo non per importanza, il paradosso ambientale. Siamo tutti convinti che si debba andare verso il superamento del consumo di combustibili fossili ma la fase di transizione è ancora molto lunga. Nel frattempo, che fare? La gestione petrolifera lucana è paradossale anche sotto questo profilo: lo Stato si occupa solo dell’ottimale gestione del giacimento petrolifero, attraverso il braccio operativo del Ministero dello sviluppo economico: UNMIG. Questo Ente, che pur dispone delle migliori competenze e dotazioni: laboratori, chimici, geologi, ingegneri minerari.., neppure dialoga con la Regione; lo fa solo con le Procure della Repubblica, i Prefetti, il Ministero. Eppure potrebbe e dovrebbe occuparsi molto di più, e meglio, dei profili ambientali, aiutando la Regione a monitorare e prevenire i problemi.

Invece, il trend normativo nazionale ha pensato a togliere alle Regioni prerogative in materia ambientale senza che lo Stato se ne sia poi mai effettivamente occupato. Come nel caso di ISPRA, più volte sollecitata ad affrontare la sfida ambientale delle estrazioni petrolifere, senza esito. Il dato è ancor più preoccupante giacchè ISPRA rappresenta l’apice del sistema nazionale di controllo ambientale e potrebbe coordinare anche le iniziative territoriali, consentendo alle varie ARPA di dare il loro contributo qualora quella locale non sia sufficientemente attrezzata. E’ noto infatti che ARPAB a tutt’oggi non dispone di uomini e mezzi adeguati a fronteggiare le importanti emergenze ambientali della Regione ma nessun proficuo coordinamento, specie sul tema petrolifero, sembra sia stato mai portato avanti. Evidentemente lo Stato preferisce massimizzare i profitti e lasciare i problemi ambientali alla Comunità locale.

Occorre quindi, anche qui, esigere in Basilicata un attivismo del Ministero dell’Ambiente (con ISPRA ma non solo) che non si è mai registrato, lasciando questa Comunità sola a fronteggiare i problemi generati dalle estrazioni petrolifere e gli espropri delle Multinazionali, mentre le Royalties venivano lasciate evaporare con la spesa corrente.
Il dato finale è che, per le modalità con cui il giacimento è stato gestito in tanti anni, per i noti problemi ambientali, l’improprio utilizzo delle royalties, la mancata valorizzazione delle risorse umane locali, il petrolio, invece che motore di sviluppo, è diventato un nemico pubblico, quando Stati come la Norvegia, che estraggono quantitativi 50 volte superiori alla Basilicata, hanno viceversa costruito, attorno alla stessa risorsa, formazione, welfare e una cultura ambientale invidiabile.

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