La proprietà elettorale. Editoriale di Aldo Berlinguer. L’Unione sarda del 15 dicembre 2023

La proprietà elettorale

Correva l’anno 1789 quando, a Parigi, nella sala della Pallacorda, emanava gli ultimi respiri l’antico regime che aveva dominato per secoli l’intero continente. Qualche anno dopo, finiva (male per lui) anche la monarchia assoluta di Luigi XVI. E iniziava una nuova epoca.

La rivoluzione, in poco tempo, cancellava quell’odioso sistema di privilegi che aveva per secoli angariato il popolo. Come emergeva da una nota vignetta dell’epoca: due signori (clero e nobiltà) beatamente seduti sulle spalle di un terzo (Stato), che arrancava, esausto, sorreggendo tutti e tre. Ad innescare il cambiamento, tra gli altri, il diritto di proprietà, richiamato nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il quale, nel pensiero dei rivoluzionari, liberava gli uomini da quelle odiose concessioni feudali che assegnavano ai subalterni del Re solo talune prerogative, sempre revocabili, mentre la terra restava di dominio regio. Talché nessuno, eccetto il Re, poteva sentirsi padrone a casa propria.

Il diritto di proprietà diveniva quindi pieno ed esclusivo e costituiva un baluardo di libertà rispetto ad eventuali, sempre latenti, prevaricazioni del sovrano. Potremmo dunque dire che il feudalesimo finisce dove inizia il diritto di proprietà, almeno quello che ancora oggi noi troviamo nei nostri codici.

Questo almeno sul piano formale. Nella sostanza la proprietà ha subito, negli anni, ampie torsioni. Ma non avremmo forse immaginato di veder riaffiorare proprio oggi, alla vigilia delle elezioni, antiche concessioni feudali. Assistiamo infatti, a volte increduli, ad un dibattito tra fazioni che spesso non si connotano per la loro storia e per la loro visione di futuro, men che meno per un programma attendibile che definisca i loro intenti. Sempre più spesso si siedono invece ai tavoli persone che, sino a qualche mese prima, rappresentavano altre forze politiche e che sono sempre lì poiché traggono la loro legittimazione dal bacino dei voti che, appunto, gli “appartiene”. È questa la dote che offrono; il progetto politico e chi lo sostiene diventano dettagli insignificanti. Il consenso di cui godono, sul piano individuale, è una sorta di assegno in bianco che gli elettori hanno loro dato ad personam. E peraltro quel consenso ha avuto un corrispettivo (un favore, una raccomandazione, spesso presunta, illusoria); dunque “appartiene ” oggi a chi lo ha comprato.

Così, ogni giorno, scopriamo che tizio o caio hanno deciso di unirsi a questa o quella coalizione con la loro associazione, lista civica, gruppo di pressione, magari nato proprio ora, alla vigilia delle elezioni, quasi per caso. Altri mercanteggiano all’interno dei partiti, minacciando un “fuoco amico” che nuoce più di quello avverso. Il futuro della comunità è dunque ipotecato, in partenza, da pacchetti proprietari di voti che il tenutario concede al miglior offerente. Pacchetti non di cose ma di persone, che però hanno ceduto la parte più inalienabile di sé (il voto) al compratore di turno.

Si compie, così, il corso della storia, nel modo più inaspettato. Specie per i rivoluzionari francesi che pensavano di aver abbattuto l’antico regime proprio attraverso quel diritto di proprietà che oggi, paradossalmente, ci riporta indietro di secoli, al tempo della sudditanza, della fedeltà, dell’alienazione di diritti inalienabili, per un piatto di lenticchie.

E dire che, per averlo, il diritto di proprietà, si pagò un caro prezzo, di uomini e mezzi. Chissà se ne è valsa la pena, visto che, a distanza di secoli, in molti, troppi, non hanno ancora imparato la lezione. Sono ancora sudditi (non cittadini) e, appena possono, si svendono al miglior offerente. Poi, magari, con grande enfasi, reclamano (a parole) l’indipendenza (da chi?).

Aveva dunque ragione lo storico francese Goubert: “L’antico regime è ancora qui, magma di cose, vecchie di secoli, lasciate tutte in vigore”.

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