Lo strano mondo delle servitù militari – Editoriale di Aldo Berlinguer, ne L’Unione Sarda

La pandemia e le altre sfide della globalizzazione ci hanno insegnato molto. Per garantire il diritto alla salute abbiamo dovuto rinunciare alle libertà, all’istruzione, alle attività economiche, alla vita sociale. Abbiamo imparato che la tutela dell’ambiente e del territorio è vitale e se non la assicuriamo ne paghiamo tutti le conseguenze, nessuno escluso. Anche termini come transizione ecologica, energetica ed economia circolare sono ormai entrati nell’uso comune.

Ma queste conquiste, questi principi non si applicano ovunque. In Sardegna, ad esempio, ci sono 35 000 ettari in cui tutto questo non vale. E 20.000 km2 ove, durante le esercitazioni militari, non c’è salute, ambiente e territorio che tengano.

E’ lo strano mondo delle cd. servitù militari di cui tutti parlano e pochi sanno. La Sardegna ne ospita tantissime: il 60% di tutte quelle italiane. E una Commissione parlamentare d’inchiesta, nel febbraio 2018, ne ha accertato la consistenza, l’operatività ed i conseguenti danni all’ambiente e alla salute, nonostante il consueto negazionismo di molte delle persone ascoltate.

Nell’isola abbiamo di tutto: poligoni missilistici, aerei, di esercitazioni a fuoco, aeroporti, serbatoi di carburante e varie altre infrastrutture. In questi luoghi singolarmente convivono aree protette, esercitazioni militari, esplosioni di ordigni di ogni tipo, con l’impatto ambientale che si può immaginare. Non si tratta infatti solo di simulazioni ma di guerra vera. Vengono pure ospitati militari stranieri, a pagamento, per sperimentare armi, come in una sorta di luna park adibito a war games; ove vige una transizione ecologica invertita. Anche la salute e la sicurezza degli stessi militari sono messe a duramente rischio ma nessuno fiata.

Per questo, la legge di bilancio 2018 ha introdotto nuove norme che richiedono quantomeno un po’ di trasparenza nella gestione di questi presidi e nelle connesse ricadute ambientali, demandando i controlli alle competenti autorità amministrative. Ma, guarda caso, anche queste norme, a tutt’oggi, sono lettera morta. Neanche la sinistra ambientalista sembra curarsene, anzi, plaude alla “restituzione” di qualche granello di sabbia; come se Porto Tramatzu, S’Enna e S’Arca non appartenessero già alla Sardegna. Eppure potrebbe fare molto, visto che governa proprio il Ministero della Difesa. E che dire di quell’autonomismo sempre fiero e urlante che scodinzola dinanzi ai miseri indennizzi governativi?

Se poi qualcuno parla di bonifiche viene preso per matto. Ma c’è forse un euro su questo nella progettualità sarda candidata sui fondi del recovery plan? E non è forse questo il momento di rivendicarlo? O preferiamo fare il bagno nell’uranio impoverito per allietare le vacanze di turisti e residenti?

Una volta, alcuni “addetti ai lavori” mi dissero: “I sardi, si sa, si lamentano tanto ma si accontentano di poco”. E le bonifiche? chiesi. “Si figuri, per bonificare quei luoghi ci vorrebbe Mosè. Non ci consta che ne esista uno in Sardegna”.

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