Morire di social – Editoriale di Aldo Berlinguer – L’Unione Sarda del 06/04/2023

Morire di social

Ormai cinque anni sono passati dalla morte di Molly Russell, la bambina che si è tolta la vita, in Inghilterra, dopo aver guardato per mesi immagini sui social che la incitavano a farsi del male.

Oggi, vari esperti o ex dipendenti delle multinazionali del web hanno denunciato la presenza di strategie, alimentate da algoritmi di intelligenza artificiale che, pur di mantenere la presenza degli utenti più a lungo possibile nelle piattaforme social, fanno leva sulla loro emotività sino a renderli dipendenti e continuamente sollecitati con conseguenti disturbi emotivi. Gli stessi giudici inglesi hanno definitivamente accertato che l’incitamento degli adolescenti a partecipare compulsivamente ai social è finalizzato a massimizzare i profitti delle società che li gestiscono.

Occorre reagire, subito. Bisogna che la politica e le istituzioni smettano di avvitarsi in​ estenuanti dibattiti provinciali e inconcludenti su luoghi comuni e comincino ad affrontare le problematiche dell’oggi e lo strapotere che le multinazionali esercitano nella manipolazione dei pensieri, delle opinioni e delle coscienze di noi tutti, influenzando non poco anche le scelte elettorali.

Per fortuna, ci sono alcuni corpi sociali che stanno reagendo, a partire dalle scuole, come quelle, in Emilia Romagna, che hanno dedotto da comportamenti autolesionistici degli studenti​ la loro frequentazione maniacale di alcuni social come Tik Tok. La “cicatrice alla francese” che due giovani si erano inflitte con un livido sotto l’occhio sinistro, nello stesso punto, ha infatti insospettito gli insegnanti che hanno​ capito (oggi l’Antitrust ha aperto un procedimento) che si trattava di un gioco, a chi si praticava la migliore cicatrice, indotto dai social.

Altri hanno scoperto come alcune applicazioni impongano agli adolescenti di essere sempre connessi e dialogare con coetanei di tutto il mondo. Questi giovani accusano infatti crisi di sonno durante l’orario scolastico, proprio perché non dormono abbastanza. Altre applicazioni chiedono di frequente, all’improvviso, di postare foto di sé in quel momento; chi non lo fa esce dal gioco. L’adolescente non deve allontanarsi mai dal telefono perché in qualsiasi momento potrebbe arrivare la predetta richiesta: altro modo per rendere dipendente il giovane.

Altre scuole ancora, ad esempio a Verbania, hanno aperto corsi finalizzati al rilascio di una ‘patente’ per l’utilizzo dei social. Almeno per spiegare ai ragazzi quali sono i rischi di un utilizzo non ponderato di queste piattaforme e quali comportamenti virtuosi si possono adottare.

Insomma, sono le associazioni, le scuole, a volte singoli insegnanti che tentano di arginare questa travolgente dipendenza dai social che le grandi multinazionali infliggono agli adolescenti senza alcuna remora, pur di fare profitti. Non è dunque un caso che i reparti di neuropsichiatria infantile denuncino un aumento esponenziale dei casi di disturbi derivanti dalla frequentazione dei social.

E allora, di grazia, potrebbe la politica almeno accorgersi di cosa sta accadendo? E magari innalzare il limite di età per la frequentazione dei social da 13 a 16 anni? Possibile chiedere maggiori controlli sulle frequentazioni dei giovanissimi e sulla gestione dei dati personali a questi operatori del web, magari sincerandosi che non usino algoritmi in grado di carpire anche le​ debolezze psicologiche dei più vulnerabili al fine di approfittarne per fini commerciali?

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